Cronaca della conviviale n. 16 del 27 novembre 2006

 

Tema: “Milano: le attività: il Design”

Relatori: Dott. Aldo Colonnetti e Dott. Paolo Boffi   

 

Milano non sarà più una città delle grandi industrie pesanti. Prima verità. Seconda verità: non si fa niente di grande con i Pico della Mirandola se i Pico della Mirandola non sono circondati da uomini e idee disposti a “fare sistema”. Terza verità. Milano non si fermerà. Tre semplici verità, ma che stanno al fondamento del vangelo laico di una Milano che vuole continuare a rappresentare la locomotiva del paese.

La Grande Milano continua a presentare la sua argenteria nel corso delle serate favolose (o favoliane?) dei Lunedì di Rotary Giardini. Lunedì 27 novembre sono stati presentati due pezzi preziosi, il filosofo e storico dell’arte Aldo Colonnetti, vicepresidente dell’Istituto Europeo di Design, l’uomo della fantasia al potere; e Paolo Boffi, l’uomo della fantasia in cucina (quella in cui si cucina: cucine Boffi, ed oggi anche bagni Boffi): il design e chi lo adopera.

Li sentite parlare e già avete la prima idea del perché Milano è  Milano. Un uomo seduto su una pila di libri e saggi scritti da lui medesimo; l’altro seduto su un fatturato annuo di 60 milioni di euro, tutti e due capaci di impostare un discorso, svolgerlo e chiuderlo in un manciata di minuti (una ventina per uno, mediamente, non di più) senza una sbavatura, una scuffiata, una scarrocciata. Dritti alla meta.

Colonnetti. Il design è distillato di cervello, di fantasia e di innato senso del bello. Vuole ridisegnare la natura. Trarre dai meandri dell’immaginazione forme nuove e ricostruire le cose che ci accompagnano nella vita, per dar loro quel plusvalore che le impone sul vecchio, sul conosciuto, sull’usuale.

Rifare una sedia, per esempio. Ma attenzione, rifarla in maniera che ci si possa sedere, perché la schiena dell’uomo è quella che è, e la sedia, oltre tutto, va venduta. E a mettere in riga il designer ci pensa un signore, magari un po’ rude e brianzolo, che compra il disegno solo se chi lo ha fatto ha tenuto conto delle ragioni dell’ergonomia e del mercato. A questo punto, si può pensare al fare: attenzione, “pensare”, al fare. Perché “fare” è un’altra cosa.

Per “fare” occorre  chi, anche materialmente, faccia. Un habitat innamorato del fare e delle cose che fa,  artigiani che hanno l’oro nelle mani, quell’oro trasmesso dai loro padri, quelli che studiarono nelle tanto deprecate Scuole di avviamento professionale create con il Regio decreto 21 settembre 1938, n. 2038 e che per allora, e per molto tempo ancora, andarono bene. E crearono una scuola d’artigiani “che forse non morrà”. 

Detto tra parentesi, oggi l’Italia conta, in gran parte nella Grande Milano, 2319 designer e stilisti, 3219 architetti applicati, 7302 disegnatori tecnici, circa 13 mila professionisti della progettazione del bello, oltre il 15 per cento del totale europeo. Le imprese che fanno il Mady in Italy in Lombardia sono oltre 130 mila, un quarto del made totale nazionale. L’83 per cento del design si fa con professionisti freelance, il 17 per cento in sinergia con l’impresa.

L’OCSE ha capito tutto e nel suo ultimo rapporto ha concluso che l’innovazione che salverà l’Italia abita tra Milano/Novara/Como/Brescia, ricorda Colonnetti. Per merito anche, se non soprattutto, del design, il plusvalore che reinventa le cose, quello che da ragazzi ci faceva stupire quando andavamo a mangiarcelo con gli occhi alla Triennale (chi l’ha vista? Dovrebbe risorgere come Museo del Design, appunto, nel progetto di Michele De Lucchi). Un’arte nobile al servizio di un artigianato costretto – è cronaca di questi giorni – a scendere in piazza per non farsi mettere il basto.

Insomma, i fenomeni sociali, come nei magici anni Sessanta, l’età d’oro del design italiano, non nascono per caso: sono un cocktail, sono frutti dell’esistenza di un humus, di un intesa collegiale. Sistema.

Dice Favole, “La storia siamo noi”. Fremito d’orgoglio in sala (mi è parso).

E alla ribalta ora c’è Paolo Boffi, uomo-simbolo della Brianza Felix, con alle spalle i 72 anni di vita dell’azienda paterna (Lentate sul Seveso), dove, da una baracca in cui uscì per caso un buffet per la sorella di papà, si è arrivati, attraverso il classico percorso Ricerca-Cultura-Formazione-Design-Fabbrica-Comunicazione-Esposizione, alla cucina senza maniglia (1963) di Gigi Massoni, il barbuto creatore di oltre 900 “oggetti”; o al mobiletto tuttofare da cucina (1968) disegnato per la Boffi da Joe Colombo (milanesissimo, due Compassi d’Oro al merito), esposta per 3 anni al MoMA, il Museum of Modern Arts di  New York; fino ( e non è finita lì) alla Esprit del 1992. Una crescita di gusto e di prodotti alla quale hanno partecipato personaggi come Munari,  con la matita, e persino Gualtiero Marchesi, con l’esperienza del “big user”. Oggi la Boffi fa anche bagni senza rubinetti e li esporta, con il resto, in 48 paesi. Alle volte così grandi e audaci che lo stesso Paolo si chiede del compratore. “Ma che casa avrà mai costui?”. Una grande casa, grande come il suo entusiasmo, grande come la sua professionalità, per la quale il design deve essere – così conclude Paolo – bellezza, ma anche sicurezza.

Seguono un complimento di Brandolesi (“Bravo il design, ma bravi anche voi artigiani, con il vostro lavoro”) e le domande di Ravetta (Risponde Boffi: Sì, tutto italiano, tranne qualche minuteria metallica); di Zavanella (Boffi: Ergonomia? Certo, il designer non deve strafare, e spesso lo vorrebbe), della Signora Rabuini del Visconteo (Baffi: L’ultima nata? La parete che cammina, o quasi).

Anche l’orologio cammina.

A lunedì 8 gennaio, con Cesare Cardani, ingegnere aerospaziale. Sempre della serie: Che cosa combina ‘sta Milano.

 

Nicola D’Amico